Una riflessione ex post sul 25 aprile e sull’uso autolesionistico della Storia

Alla fine, come ogni anno, anche stavolta la festa del 25 aprile si è riassunta così: sinistra che chiede alla destra proclami antifascisti, destra che passa giornate intere a prendere la distanze dal Ventennio, sinistra che accusa la destra di aver sì preso le distanze dal Ventennio ma non abbastanza, destra che ricorda alla sinistra come anche il comunismo sia stato una dittatura sanguinaria ma vere prese di distanze da parte loro non ci siano mai state, sinistra che dichiara che la destra non avrà mai il diritto di sedersi al tavolo con loro per dare vita a una memoria condivisa, destra che accusa la sinistra di domandare il patentino antifascista ma di non fare altrettanto con quello anticomunista, sinistra che affigge manifesti con il leader politici di destra appesi a testa in giù.
 
Tranquilli, non vi propinerò l’ennesimo excursus storico sul 25 aprile, sui fascisti, sui partigiani e sulla Seconda Guerra Mondiale. E’ un dibattito che mi interessa poco e mi annoia molto. In primis perché completamente fuori dal tempo in cui viviamo, cosa che dovrebbe relegarlo a dibattito appunto storico e non di politica attuale. E poi perché, se con la macchina del tempo ci trasferissimo di colpo nel Ventennio, ho la sensazione che il 90% di coloro che oggi si dichiarano antifascisti li ritroveremmo tra i fascisti e il 90% di coloro che oggi si dichiarano fascisti li ritroveremmo tra gli antifascisti.
 
La riflessione utile da fare è invece un’altra.
 
Ogni anno tocchiamo con mano quanto il 25 aprile, a torto o a ragione, sia una festa che alimenta scontri, divisioni e fratture nel nostro Paese. A dire il vero si tratta di fratture che ormai sono sempre più concentrate all’interno della politica e sempre meno presenti all’interno della società, la quale da tempo ha ormai chiuso i conti del passato e sia passata oltre, come dimostra il fatto che il 25 aprile – mentre la politica si scanna – gli italiani se ne vanno in gita. Fratture dunque ormai alimentate artificialmente, consciamente o meno, dalla politica. 
 
Ma pur sempre fratture. E di fratture l’Italia oggi è l’ultima cosa della quale avrebbe bisogno.
 
Se l’Italia ragionasse da Nazione, o meglio da Patria, l’obiettivo che dovrebbe porsi oggi è come fare in modo di recuperare un ruolo nel mondo. Un obiettivo che passa per tante riflessioni di carattere politico in termini di geopolitica, di rapporti con l’Europa, di debito pubblico, di politiche economiche e sociali eccetera eccetera. Ma che passa anche da un percorso di costruzione di una coesione nazionale che faccia degli italiani un popolo, una comunità che – al di là delle differenti posizioni politiche – abbia una missione comune: far sì che l’Italia abbia voce in capitolo nel determinare la direzione che il mondo prenderà nei prossimi anni.
 
E questo passa dalla costruzione di una pedagogia nazionale che faccia da minimo comune denominatore nel quale tutti possano riconoscersi. Proprio come fanno gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, la Turchia, l’India e tutti coloro che vogliono preservare o accrescere la loro potenza e influenza nel mondo: darsi una Storia che faccia da collante e da propulsore per la Missione che si vuole perseguire. 
 
Le ricorrenze, le festività nazionali servono proprio a questo. Peccato che in Italia le si utilizzi nel modo sbagliato, valorizzando quelle che ci dividono e dunque indeboliscono, ignorando quelle che ci possono unire e rafforzare. Così, se pensiamo alle feste dedicate all’unità nazionale, vediamo che la ricorrenza più valorizzata è proprio il 25 aprile nonostante in questi decenni abbiamo imparato essere purtroppo fonte di scontri e divisioni tra destra e sinistra per via di del fatto di non aver mai preso la decisione di archiviare quel periodo storico catalogandolo come storia e non più come politica. Un problema che in modo minore si riflette sul 2 giugno, anniversario della nascita della Repubblica italiana, ancora occasione di dibattiti su quanto accadde durante il famoso referendum nel quale si scelse tra monarchia e repubblica e che portò all’esilio della famiglia reale. Persino il 17 marzo, anniversario della nascita dello Stato italiano per via della nascita del Regno d’Italia, è oggetto di divisioni stavolta non ideologiche ma territoriali con un Sud che ogni anno non manca di ricordare la genesi nordista del Regno d’Italia rivendicando i tempi del Regno delle Due Sicilie e il declino conseguente alla sua fine. 
 
Passa sotto silenzio invece un’altra ricorrenza, non elevata a festività (come neppure il 17 marzo): il 4 novembre, Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze armate che ricorda la vittoria dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Una ricorrenza questa che invece più delle altre sarebbe potuto essere utile valorizzare, perché a differenza delle altre non si porta dietro né guerre civili come il 25 aprile né una spaccatura politica a metà come il 2 giugno né una frattura territoriale come il 17 marzo. E che anzi ha forse rappresentato uno dei pochi momenti di unità dei popoli italiani ritrovatisi, nonostante un’unificazione ancora fresca e dolorosa, in guerra uno accanto all’altro. Lasciando ai fucili amalgamare ciò che non era riuscita ad amalgamare la politica.
 
Si tratta solo di qualche esempio per provocare una riflessione di fondo: in un contesto geopolitico scombussolato e in fase di ricomposizione, l’Italia ha oggi più che mai bisogno di rafforzarsi internamente per affrontare sfide esterne dalle quali dipenderanno la resurrezione o la morte del nostro paese. Considerato ciò, ha più senso continuare a porre l’accento su festività che ogni anno fanno riaffiorare le ferite insite nella nostra comunità nazionale o è forse più utile prenderne atto, voltare pagina e pensare a nuovi momenti più efficaci nell’opera di cicatrizzazione e di composizione di una vera unità nazionale?